Programma:
Alfredo Catalani (1854 - 1893)
Preludio “A sera”
Giacomo Puccini (1858 - 1924)
Crisantemi
Tre minuetti
Francesco Paolo Neglia (1874 - 1932)
Due gavotte
Ottorino Respighi (1879 - 1936)
Antiche danze ed arie per liuto - Suite III
1. Italiana (Ignoto - Sec.XVI)
2. Aria di corte (G.B. Besardo - Sec.XVI)
3. Siciliana (Ignoto - Sec.XVII)
4. Passacaglia (L. Roncalli - 1692)
Riccardo Pick Mangiagalli (1882 - 1949)
2 Preludi da J.S. Bach
Preludio No.1 (dal Preludio e fuga per organo in Re minore BWV539)
Preludio No.2 (dalla Partita per violino solo No.3 in Mi maggiore BWV1006)
Bruno Bettinelli (1913 - 2004)
Invenzione n. 2 per archi
Come negli anni precedenti, abbiamo scelto di dedicare il secondo concerto della stagione alla musica della prima metà del Novecento, selezionando compositori particolarmente rappresentativi delle correnti stilistiche prevalenti nei vari Paesi. Dopo i concerti dedicati ai musicisti inglesi ed americani, è la volta degli italiani. Caratteri comuni di molta della musica composta nel nostro Paese in quel periodo, ed anche dei brani eseguiti questa sera (ad eccezione di Bettinelli, il quale però appartiene ad una generazione successiva) è un prudente tradizionalismo tonale, legato al belcanto (Puccini, Catalani), o alla reminiscenza dell’antico, o ad un gusto musicale che il compositore condivideva con il suo pubblico. In altri termini, salvo eccezioni, i musicisti italiani, dai maggiori fino a quelli meno noti, tendevano a rifuggire dalle forzature spesso violente del linguaggio che in quegli stessi anni altri compositori, in altri Paesi, “imponevano” ai loro ascoltatori. Tutto ciò potrebbe essere considerato come l’indice di una cultura musicale un po’ arretrata rispetto alle più vitali avanguardie europee, oppure più semplicemente come lo specchio di un carattere nazionale meno incline a furori iconoclasti, a spezzare i ponti con il passato, e soprattutto con la tradizione operistica. Andrebbe poi osservato come una tendenza conservatrice pervadeva nello stesso periodo anche la musica inglese: coloro che frequentano abitualmente i nostri concerti ricorderanno probabilmente i pezzi in stile “elisabettiano” di Vaughan Williams e Holst che presentammo due anni fa. E, naturalmente, un eventuale giudizio limitativo sul piano culturale non implica affatto un giudizio negativo sul piano estetico, ove ci si ponga sul piano della riuscita delle intenzioni espressive dell’autore.
Il preludio “A sera” di Alfredo Catalani fu inizialmente scritto per pianoforte nel 1890. Venne trascritto due anni dopo per orchestra o quartetto d’archi, e divenne infine l’introduzione all’atto III della “Wally”, l’opera più riuscita nella carriera di questo raffinato autore, sfortunato nella sua breve vita stroncata dalla tisi, così come nella musica, dato che la sua apertura alle esperienze musicali tedesche venne schiacciata dalla presenza della gigantesca personalità verdiana, e dal suo essere cantore dello spirito nazionalista nell’Italia risorgimentale e post-risorgimentale. E tuttavia, nonostante Catalani sia oggi assai poco eseguito, la sua musica venne all’epoca lodata e apprezzata sia da Puccini e Mahler, che da Toscanini (il quale, come noto, donò persino il nome Wally alla sua figlia primogenita). “A sera” è un pezzo breve, dalla scrittura semplice eppure molto suggestiva, strutturata sopra un “ostinato” dei bassi che, mentre nella versione per pianoforte imita onomatopeicamente il suono di una campana vespertina (un testo apposto all’inizio della partitura recita: «E il mesto suono della squilla il mio pensier segue, vagando»), nella versione orchestrale acquista una sonorità quasi da organetto meccanico. Tutto il pezzo è condotto in modo minore, salvo un breve climax in maggiore, dopo il quale esso riprende il suo mesto incedere, fino alla conclusione. Il brano si inserisce pienamente nella vena dimessa e intimistica tipica di molta musica italiana della fine dell’ ‘800 e dei primi del ‘900, trovando una corrispondenza letteraria ideale nella poetica pascoliana, e forse un modello nella allora celeberrima “Melodia” dall’”Orfeo” di Gluck trascritta da Sgambati.
Giacomo Puccini (anch’egli lucchese, come Catalani) non necessita certamente di presentazioni. I quattro brani eseguiti questa sera risalgono al suo periodo giovanile (1890-92), e conobbero rapidamente un’ampia diffusione, sotto forma di riduzioni per pianoforte a due e quattro mani. “Crisantemi”, per orchestra d’archi, fu composto per commemorare la morte di Amedeo di Savoia, duca di Aosta. La prima parte è basata su una sospirosa melodia ascendente, eseguita all’unisono da violini e viole, mentre nella sezione centrale i primi violini sviluppano una più ampia e nostalgica frase, sopra una trama sonora tenuta prima dalle viole e poi dai secondi violini. Sebbene questa molle trenodia pecchi forse di un eccessivo sentimentalismo, l’ascoltatore vi può già riconoscere alcune delle caratteristiche dello stile pucciniano maturo, in particolare il raffinato trattamento armonico. I suoi due temi verranno ripresi pochi anni dopo nell’ultimo atto della “Manon Lescaut”. I “Tre minuetti” sono dei divertimenti senza troppe pretese, che giocano assai piacevolmente con un manieristico ‘700 (un vero topos, questo, dell’immaginario europeo), come in seguito faranno, tra molti altri, Stravinsky e Debussy. Se fosse ancora necessario dimostrare che il nostro autore, per quanto saldamente ancorato all’opera, ben conosceva il panorama musicale d’oltralpe, invitiamo ad apprezzare il colore più mitteleuropeo che italiano del terzo minuetto e, in alcuni passaggi del primo, qualche sorprendente affinità con alcuni dei Lieder giovanili di Gustav Mahler. Mentre il secondo minuetto confluirà anch’esso nella “Manon Lescaut”, della quale costituirà il motivo di apertura del primo atto, seppur reso poco riconoscibile da un’esecuzione da parte di tutta l’orchestra e a velocità più elevata.
Ospite d’onore della serata è però il legnanese di adozione Francesco Paolo Neglia, ricordato anche da un busto bronzeo posto in Corso Italia, inaugurato nel 1972. Nato ad Enna ed emigrato in Germania, Neglia fu direttore del conservatorio di Amburgo, e vi fu apprezzato anche come direttore d’orchestra. Rientrò in Italia poco prima dello scoppio della Grande Guerra, ma avendo sposato una donna tedesca, venne pesantemente osteggiato durante gli anni del conflitto, in quanto additato come filotedesco. Dovette quindi trasferirsi, dapprima a Caltanissetta, poi nuovamente in Germania ed infine, negli anni ’20, a Legnano, dove insegnò nelle scuole elementari ed in seguito fondò il liceo musicale “Verdi”. Le due “Gavotte”, composte in periodi diversi (1910 e 1920 circa), non sono affatto pezzi di un compositore occasionale, come testimonia anche il lungo catalogo delle sue opere. Nella prima si può apprezzare il gioco di linee strumentali del tema, dal sapore beethoveniano, ed il piacevole “bordone” al basso della parte centrale. La seconda, in totale contrasto con la prima, è sorprendente per la sua modernità pienamente novecentesca, con un procedere quasi da meccanismo a orologeria. Crediamo che l’ascolto di questo musicista, ingiustamente trascurato, costituirà una piacevole sorpresa per la maggior parte del pubblico.
La Terza Suite dalle “Antiche danze ed arie per liuto” (1931) è sicuramente il più noto tra i pezzi eseguiti questa sera. Il suo autore, il bolognese Ottorino Respighi, è considerato, insieme a Casella, Malipiero e Pizzetti, come il più autorevole rappresentante della cosiddetta “generazione dell’80”, che ebbe a suo merito l’allargamento - seppur prudente - degli orizzonti della musica italiana nel periodo tra le due guerre. In questo ambito, Respighi – insieme a Casella – fu esponente della cosiddetta “scuola romana”, che si affiancava a quella milanese e a quella veneziana. Nelle tre Suite, la cui composizione è significativamente distribuita lungo tutto l’arco della carriera di Respighi (le prime due sono del 1917 e del 1923), l’autore esprime tutto il suo amore per le musiche italiane del Rinascimento e del Barocco, sia di quelle popolari sia di quelle di corte. La Terza Suite, generalmente considerata la migliore, costituisce un’abile e suggestiva trascrizione per orchestra d’archi di questi brani pensosi e sereni, che lascia inalterati i concatenamenti accordali e le dissonanze tipiche del liuto, mentre vi aggiunge colori iridescenti e tempi più variati. I suoi quattro movimenti sono tutti in metro ternario e hanno un andamento di base moderato (rispettivamente: “Andantino”, “Andante cantabile”, “Andantino”, “Maestoso”). Tra essi, meritano particolare attenzione l’“Aria di corte”, una sorta di minuscola suite nella Suite, che contiene non meno di sei brevissimi pezzi raggruppati attorno ad un “Lento con grande espressione”, e la “Passacaglia” finale, che sviluppa una serie di variazioni su un basso ostinato, dopo un’esposizione nella quale il tema viene scambiato tra tutti i gruppi strumentali.
Torniamo in area “milanese” con Riccardo Pick-Mangiagalli, il quale, sebbene boemo di origine, era culturalmente italiano. E forse non tutti sapranno che questo musicista, vissuto a Milano e direttore del Conservatorio fino alla sua morte, è sepolto nel cimitero di Cerro Maggiore. I due pezzi che verranno eseguiti risalgono al 1930, e testimoniano della pratica, assai diffusa in quell’epoca, della trascrizione per organico strumentale diverso di pezzi celebri, in genere per servire come gradito bis alla fine dei concerti. Il primo Preludio è basato sul Preludio e Fuga in Re minore per organo BWV539 di Bach. La trascrizione di Pick-Mangiagalli chiarisce all’ascoltatore la polifonia bachiana, dato che le quattro parti della scrittura presenti nella partitura organistica vengono suddivise tra gli strumenti dell’orchestra. La versione orchestrale arricchisce altresì di colori e accenti la monocromatica scrittura organistica, ma senza alterarne il carattere suggestivamente austero e severo. Anche il disegno costruttivo del secondo Preludio, tratto dal Preludio che apre la Partita No.3 per violino solo in Mi maggiore, è piuttosto semplice, seppure sia diverso da quello del precedente. Esso consiste nell’aggiunta di un accompagnamento d’archi alla scrittura solistica bachiana, la quale viene eseguita invariata dai primi violini. Di questo pezzo esiste anche una ben nota trascrizione per pianoforte solo di Rachmaninov, incisa su disco dall’autore stesso.
Il milanese Bruno Bettinelli è uno dei più noti musicisti italiani contemporanei. A lungo titolare della cattedra di composizione nel Conservatorio della sua città, fu maestro per molti autori dell’avanguardia italiana del secondo dopoguerra e degli anni ‘60. Nel corso della sua lunga carriera, Bettinelli ha saputo utilizzare ecletticamente molti linguaggi musicali, dal contrappunto fino all’atonalità e alla dodecafonia, ma senza mai distaccarsi dalla ribadita fiducia nelle possibilità espressive della linea melodica, che in lui resta sempre filo conduttore riconoscibile. La seconda delle due giovanili “Invenzioni” per orchestra d’archi (“Allegro energico e ritmato”), composta nel 1939, alterna brevi frasi interrogative ad una risposta marcatamente ritmica e costruita a “macchie” cromatiche, con un influsso dello stile di Bartók, depurato tuttavia dai timbri acidi e corrosivi caratteristici dello stile dell’autore del “Mandarino meraviglioso”. La parte centrale costituisce un intermezzo lirico e sospeso. Il richiamo alle “Invenzioni” bachiane è certamente da ricollegarsi al sapiente trattamento contrappuntistico (peraltro non facilmente percepibile al primo ascolto), che include in questo pezzo anche passaggi canonici per “aumentazione”.
(a cura di Massimo Sacchi)
Orchestra da camera della città di Legnano Franz Joseph Haydn
sito web: www.orchestralegnano.org
e-mail: orchestralegnano@alice.it
Nessun commento:
Posta un commento
Scrivi qui il tuo commento, grazie.