Introduzione
al concerto
Concludiamo
la stagione con un concerto dedicato interamente al Beethoven del
cosiddetto “secondo periodo stilistico”, quello della piena
maturità, che vede susseguirsi molti dei più celebri capolavori,
orchestrali e non, del compositore. Il Beethoven più beethoveniano
che ci sia, almeno per il grande pubblico: quello dei grandi
contrasti, del volontarismo eroico, dell’afflato epico, della sfida
al destino. E tra essi, proprio l’«Eroica» costituisce la sfida
più ardua, non solo per il confronto che impone con i più grandi
interpreti, ma anche per l’intrinseca complessità concettuale e
musicale, ineguagliata persino da Beethoven, se non nella Nona
Sinfonia
e nella Missa
Solemnis.
Una pietra miliare del repertorio, quindi, che il direttore
Balleello, giunto ormai quasi al compimento del ciclo completo delle
nove sinfonie, ha deciso di affrontare proprio per il primo concerto
nel nuovo teatro. E noi, insieme a tutto il pubblico, non possiamo
che augurargli “Ad maiora, Maestro!”.
Il
programma
Ludwig
van Beethoven – «Coriolano»,
Ouverture in Do min. Op.62
Il
«Coriolano», del 1807, è la più famosa ouverture di Beethoven.
Essa non fu scritta per il dramma di Shakespeare, bensì come
introduzione a una tragedia di Joseph von Collin, poeta stimato
persino da Goethe, ma che oggi, non fosse per Beethoven, sarebbe
dimenticato. Tratta dalle «Vite parallele» di Plutarco, essa narra
di Coriolano, eroe romano condannato all’esilio presso i Volsci,
che per vendetta guida questo popolo alla conquista di Roma. Ma si
ferma, giunto sotto le mura dell’Urbe, dopo aver udito le
implorazioni rivoltegli dalla madre e della moglie Volumnia, ed è a
quel punto ucciso dai Volsci che lo considerano a loro volta un
traditore. Un dramma di questo genere non poteva non sedurre l'autore
dell’«Eroica» e del «Fidelio», che seppe farne una
prefigurazione, nel disegno psicologico dei personaggi, del poema
sinfonico. Il brano è scritto nella forma-sonata bitematica con
sviluppo centrale, mentre fino ad allora le “overture” erano
nella più semplice forma ternaria ABA. Il primo gruppo tematico, in
Do minore, la tonalità beethoveniana per antonomasia, caratterizza
l'anima indomita di Coriolano (qualcuno si ricorderà la pubblicità
di un amaro, in un vecchio Carosello, in cui un pugno guantato si
abbatteva su un tavolo al suono di queste note…). A questo tema
pieno di disordine e furia si oppone il secondo, in Mi bemolle
maggiore, che rappresenta la preghiere e la tenerezza di Volumnia.
Accenniamo al fatto che Beethoven riconduceva la natura contrastante
dei suoi temi non solo a ragioni espressive o drammaturgiche, ma
anche alla contrapposizione, enunciata da Kant nei «Fondamenti
metafisici della scienza della natura», tra “principio di
opposizione” e “principio implorante”. Lo sviluppo è
caratterizzato dallo scontro tra due diversi frammenti del tema di
Coriolano, a significarne il drammatico contrasto interiore.
Nell’ampia ripresa sembra prevalere gradualmente il tema di
Volumnia. La coda, nella quale il tema di Coriolano è affidato ai
violoncelli, si acquieta progressivamente, per concludersi con tre
pizzicati in pianissimo
dei soli archi: l’eroe ha accettato il suo destino.
Ludwig
van Beethoven – Sinfonia n°3 in Mi bemolle maggiore op.55 «Eroica»
La
Terza
Sinfonia,
i cui abbozzi risalgono al tragico soggiorno estivo del 1802 ad
Heiligenstadt, durante il quale il musicista scoprì i primi segni
della sordità, fu meditata per un lungo periodo, e scritta tra la
primavera del 1803 e il maggio del 1804. «Sto componendo qualcosa di
veramente nuovo» confidò un giorno Beethoven ad un amico. E la
Terza
sarebbe sempre rimasta, tra tutte le sinfonie, la più amata dal suo
creatore. La prima udienza privata avvenne presso il palazzo viennese
del principe Lobkowitz (uno dei tanti mecenati di Beethoven, e
dedicatario finale dell’opera), mentre la prima esecuzione
pubblica, diretta dal compositore al teatro “An der Wien”, risale
all’Aprile 1805. I giudizi dei critici viennesi dell’epoca furono
piuttosto duri: la trovarono “interminabile”, “incoerente” e
perfino “soporifera” (!), mentre oggi si riconosce unanimemente
che quest’opera colossale, come forse nessun’altra né prima né
dopo, ha influito in maniera determinante su tutto lo sviluppo
successivo della musica occidentale. Ciò che deve indurre
l’ascoltatore consapevole, ma anche l’interprete, a chiedersi:
fino a che punto si sta ascoltando (o interpretando) l’opera per
come essa era stata concepita, e non invece il suo mito? Una
questione alla quale è arduo rispondere, ma che, a nostro parere,
sarebbe sempre utile porsi al cospetto di tutti i capolavori
fondativi della nostra cultura, non solo musicale.
Per
quanto riguarda la storia della dedica a Napoleone, tolta, rimessa e
infine ritirata definitivamente e sostituita dal famoso sottotitolo
sul “sovvenire di un grand’uomo” - dopo che il còrso si era
autoproclamato imperatore alla fine del 1804, essa è lunga e ben
conosciuta. Pertanto, non vi insisteremo troppo, se non per far
notare come in Beethoven potessero coesistere senza problemi l’ideale
rivoluzionario sincero e il sostegno economico da parte
dell’aristocrazia d’ancien
regìme,
la dedica di un’opera a Napoleone e l’Ode
al duca di Wellington vincitore a Waterloo, oppure le altissime
meditazioni filosofiche degli ultimi capolavori insieme a piccinerie
al limite della truffa nei confronti degli editori, per non dir
d’altro. Insomma, da una parte sta l’uomo con tutte le sue
debolezze, da un’altra sta il regno incontaminato dell’arte e
dell’ideale. In ogni caso, qualunque sia stata l’occasione che ha
favorito la nascita della Terza
Sinfonia,
ciò che conta davvero, e che ne fa la grandezza, è il fatto che
essa venga poi interamente risolta in valori puramente musicali. E’
dentro la musica, nei suoi rapporti dialettici, nella sua
costruzione, nel suo faticoso procedere verso la luce, che Beethoven
trasforma in sentimenti universali ed eterni lo spirito eroico e
l’epos
delle
battaglie napoleoniche, o l’anelito dell’umanità nuova nata
dalla Rivoluzione francese e dalla Dichiarazione dei Diritti
dell’Uomo. Tornando
alla nostra opera, l’aspetto immediatamente evidente è la sua
lunghezza complessiva, davvero inusitata per l’epoca: essa verrà
superata solo da quella della Nona
Sinfonia,
ed insieme queste due opere resteranno le più lunghe sinfonie fino
alla seconda metà dell’800.
L’organico
orchestrale è lo stesso della Prima
e della Seconda,
ma con la significativa aggiunta di un terzo corno, che suonerà
spesso a parti divise rispetto agli altri due e assumerà in vari
passaggi il ruolo del protagonista.
L’Allegro
con brio
dura 841 battute, quanto un’intera sinfonia settecentesca,
dilatando e tendendo fino al limite la forma. La dialettica
sonatistica vi è mantenuta, ma occultata dalla straordinaria
continuità del discorso musicale
e dalla mirabile unità tra i temi, tutti sottilmente collegati alle
misure iniziali:
nemmeno una nota è lasciata al caso o è puramente decorativa.
Questa sottigliezza, questa rete di relazioni lontane ne
costituiscono
anche la principale difficoltà d’ascolto.
Il movimento, in un 3/4
insolito in un primo tempo di sinfonia (ma ne capiremo la ragione tra
breve), comincia con
due bruschi, imperiosi accordi, proprio come se si aprisse il sipario
su un nuovo mondo musicale. Essi
sono immediatamente seguiti dall’enunciazione del primo tema da
parte dei violoncelli. Questo motivo, che costituirà l’ossatura
portante di tutto il gigantesco primo movimento, non è altro che un
semplice arpeggio di tonica, del tutto simile – per esempio - a
quello che apre il giocoso Singspiel Bastien
und Bastienne
di Mozart oppure la bucolica Seconda
Sinfonia
di Brahms. Un motivo in sé così poco caratterizzato e poco tematico
da non sembrare per nulla adatto alle peripezie alle quali l’autore
lo destinerà:
qualsiasi
altro compositore qui avrebbe scelto un tema eroico, o nobile, o
cavalleresco. Beethoven no. Egli ha ben altre frecce nella sua
faretra, e lo si inizia a capire già alla settima misura, quando
accade il primo avvenimento inaspettato: la frase termina quasi
subito su un Do diesis, nota estranea all’armonia di Mi bemolle
maggiore. Più avanti scopriremo che questa apparente bizzarria è in
realtà una porta che si aprirà su mondi lontani. Così sapeva
gettare i suoi ponti Beethoven! Il tema viene ripreso, ed appare
un’altra trovata: i corni se ne impadroniscono subito, iniziando a
conferire il colore epico alla sinfonia. Poi, dopo un breve crescendo
e
una finta modulazione verso la dominante, si giunge ad un altro punto
fondamentale: un primo climax,
nel quale l’orchestra scandisce accordi in tempo di 2/2 sopra il
ritmo di 3/4, generando in questo modo una fortissima tensione. Ci
avvediamo ora che questa sinfonia ha anche un … motore, la
pulsazione ritmica, che la trasporterà molto lontano. Era già
partito prima, sommessamente, ma non ce ne eravamo nemmeno accorti.
La terza riproposizione del tema (che a questo punto iniziamo a
percepire come un aprirsi faticosamente la strada, piuttosto che un
percorso verso una meta conosciuta) è seguita da un motivo ai fiati,
che costituisce l’inizio del secondo gruppo tematico: tre note
discendenti alla dominante (Si bemolle maggiore) che passano da uno
strumento all’altro, un puro gioco di timbri. Giunti a questo
punto, in 50 battute, il nostro autore ha già buttato sul tavolo
tutta una serie di novità inaudite. Inizia quindi una lunga
transizione verso un tema accessorio. Ma è solo un intenerimento
momentaneo, che si incupisce subito, prima di una nuova transizione e
del ritorno ossessivo dello scontro di ritmi, martellato ancora più
rabbiosamente, e che – a parte la ripresa di un frammento del primo
tema - concluderà l’esposizione, la quale verrà poi ripetuta per
intero. Non possiamo qui analizzare in dettaglio gli episodi che
segnano il corso del lungo, prodigioso sviluppo, che usa il primo
tema e il motivo discendente ai fiati, mischiandone e combinandone i
frammenti con fantasia inesauribile. Segnaleremo solamente il punto
culminante, che dopo un lunghissimo accumulo di tensione si conclude
addirittura con una lacerante dissonanza ripetuta per ben cinque
volte, prima della comparsa di un altro tema, in Mi minore
(infrangendo la norma che impediva di inserire nuovi materiali nello
sviluppo). Occorre poi menzionare la famosa “falsa ripresa” che
precede di quattro battute la ripresa vera e propria, e sovrappone il
bicordo di settima di dominante che conclude lo sviluppo, ancora
tenuto dai violini, al precoce ritorno del tema alla tonica da parte
dei corni, mentre il resto dell’orchestra tace, creando ante
litteram una
sorta di politonalità allo scoperto: ciò violava ancora più
clamorosamente un’altra sacra regola, che resterà tale fino al
‘900. Nel corso della prima prova, giunti a questo punto, Ferdinand
Ries, che assisteva Beethoven nella direzione, inveì contro il
malcapitato cornista: «Maledetto, non sa contare?». Lo stesso Ries
racconta che il maestro lo fulminò con un’occhiata tale, che egli
temette di star per ricevere un ceffone (sulla prima esecuzione a
palazzo Lobkowitz è reperibile su Youtube un bel film, «Beethoven’s
Eroica», prodotto dalla BBC nel 2003). Occorrerebbe poi, se ve ne
fosse lo spazio, parlare della gigantesca coda, lunga quanto
l’esposizione: altra invenzione beethoveniana, che sembra dilatare
verso l’infinito il vento di epopea che percorre tutto il primo
tempo della sinfonia, ma serve anche a equilibrare uno sviluppo così
esteso.
L’Adagio
assai
in Do minore (in 2/4) è altrettanto famoso del
movimento precedente. Una pagina forse più semplice nella struttura,
ma di una struggente eloquenza, nella quale il lutto per la morte
dell’"eroe" diviene epicedio sul dolore del mondo. Oltre
al precedente costituito dal terzo tempo della Sonata per pianoforte
Op.26, è stata notata la somiglianza con marce funebri composte
nella Francia rivoluzionaria. E’ meno noto che, dopo l’eliminazione
della dedica a Napoleone, questo "Adagio " sostituì una
"marcia trionfale", la quale diverrà l'ultimo movimento
della Quinta
Sinfonia.
Il tema, aspro e doloroso, è esposto in pianissimo
dai violini e ripreso dall’oboe. Un secondo tema in Mi bemolle
maggiore è cantato dai violini in piano
e forte
alternato. Dopo la loro ripetizione e una desolata coda, si passa
alla parte centrale, in Do maggiore, che è come un ricordo pieno di
rimpianto, e si sviluppa poi in una solenne marcia scandita dai
timpani. Torna brevemente il tema iniziale, ma invece di concludere
il brano esso conduce ad un’inaspettata doppia fuga, ancora più
dolente. La musica pare acquietarsi, ma subito nasce un’altra
potente evocazione: al lugubre richiamo dei corni, sembra quasi che
un’armata spettrale, i morti delle guerre napoleoniche (e, per noi
posteri, anche di quelle future, ancora peggiori), si desti e si
rimetta lentamente in marcia, con passo cadenzato e accusatore. E qui
non ci sono eroi
o grandi
uomini
che tengano, il guerriero Beethoven diviene per una volta visionario.
Dopodiché, la ripresa del motivo iniziale, stavolta definitiva, si
fa sempre più frantumata e, insieme al tema dell’ultimo episodio,
si allontana e lentamente svanisce. I timpani hanno l’ultima
parola, prima che cada il silenzio.
Dopo
la lotta epica ed il confronto col dolore, gli ultimi due movimenti
sono la vittoria della volontà sulle cieche forze del caso e del
destino. Sebbene sia ben noto, non sarà superfluo ricordare ancora
come Beethoven dichiarasse esplicitamente che la sua idea della
musica si basava sulla
morale e sulle concezioni umanitarie elaborate dalla filosofia
kantiana.
Lo
Scherzo
(Allegro
vivace,
in 3/4) vive di un’inarrestabile forza propulsiva, e dello stesso
contrasto ritmico tra metro ternario e binario che caratterizzava il
primo movimento. Inizia con una corsa precipitosa degli archi, cui si
unisce l’oboe nel disegnare un tema pieno di slancio. Ciò
introduce un altro aspetto originale: se si rispetta la velocità
prescritta dal compositore, le singole note «si trasformano in
scintille sonore che guizzano e si consumano, o sembrano unirsi come
fiamme» (A. Boucourechliev). Ad esso seguono un motivo di flauti e
violini, la ricomparsa del primo tema, ed un Tutti
conclusivo.
Il Trio,
dal carattere concertante, è dominato dalla fanfara di caccia dei
corni, che diviene alla sua ultima ripresa quasi immateriale. Dopo
il
trio,
lo
scherzo
è ripetuto
letteralmente, ma con una sorpresa quando di colpo il metro cambia,
per 4 battute, in un marcato Alla
breve
in 2/2:
ciò che è musicalmente logico, ma non per questo meno straniante
per l’ascoltatore. La
breve coda viene scandita dai timpani, dagli archi e, infine,
dall'intera orchestra.
Il
Finale
(Allegro
molto
in 2/4) è in genere considerato poco riuscito: eppure questo tema
variato è il nucleo generatore dell’intera opera, come evidenziano
sia i sottili agganci tematici, sia la simbologia dell’umano che vi
è palesemente espressa. Esso era già stato utilizzato nel balletto
«Le Creature di Prometeo» e nelle Variazioni per pianoforte Op.35,
oltre che in una Contraddanza. Un’entrata impetuosa porta ad un
motivo pizzicato al basso, ripreso dai soli archi nelle prime due
variazioni. Nella terza, l’orchestra enuncia finalmente il tema
vero e proprio, costituito da un dolce dialogo tra i fiati e gli
archi. La quarta è una fuga in Sol minore, che culmina in una
dissonanza, prima del ritorno della contraddanza nella quinta.
Seguono la marziale marcia della sesta, e una nuova maestosa fuga con
inversione del tema nella settima. Ma il cuore del movimento,
annunciato dai soli fiati, è nell’ultima sognante variazione (Poco
andante),
che però giunge, alfine, ad un momento di angoscioso smarrimento
metafisico. Dal quale, sembra dirci Beethoven, l’unica via d’uscita
possibile è l’azione: e un frenetico Presto,
nel quale ritorna il motivo introduttivo, conduce bruscamente e un
po’ rudemente l’opera alla conclusione.
[A
cura di Massimo Sacchi]
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